Post. Parole sul postumano

Introduzione, a cura di Giuliano Spagnul

“La rivista filosofica a cui sono più affezionato affronta uno dei temi a cui (con pochi o tanti risultati) ho
dedicato gran parte della mia ricerca. Non potrei essere più contento, ovviamente. (…) Vorrei, se la testa
reggerà l’impresa, affrontare il tema del ‘divenire postumano’ come traiettoria di
desoggettivazione/risoggettivazione sulla scorta dell’ultimo Foucault.” [Mail di Antonio Caronia a
Giovanni Leghissa, curatore del numero monografico sul postumano di Aut Aut, 3 luglio 2012.] Il
contributo alla rivista filosofica più amata, alla fine, non ci sarà. Antonio non si ritirerà a elaborare e
cesellare il suo ultimo apporto a uno dei temi per lui più importanti, ma preferirà affrontare per un’ultima
volta ancora individui in carne ed ossa, intrattenendoli con le parole e l’ultimo fiato di voce rimastogli a
disposizione. A Macao in un seminario su Arte e Follia con il difficile compito di tenere aperto il conflitto,
aprire alla radicalità del conflitto, quella necessaria quanto scomoda pratica che ci può consentire di
recuperare l’indeterminato. Quell’indeterminatezza, unica garanzia della libertà di potersi modificare, che
l’umano ha di fronte alla necessità che lo vorrebbe determinato nella propria finitezza. Questo sogno di
libertà dalla costrizione, incessante ricerca delle vie di fuga possibili, la faccia rivoluzionaria
dell’altrimenti consolatoria idea di evasione, è l’inevitabile terreno di scontro con l’omologo sogno del
capitale: l’utopia totalizzante che ci vorrebbe liberi dai condizionamenti materiali della nostra vincolante
corporeità. Liberi in un post-umanesimo in cui l’umano risulti infine purificato e riportato alla sua essenza
originaria: determinata infine, una volta per tutte, dalle esigenze dello sfruttamento di un capitale che ci
apparirà con quelle forme sempre nuove che lui, e solo lui, si potrà liberamente dare.
Dal libro Mondi altri [Processi di soggettivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio
Caronia. A cura di Amos Bianchi, Givanni Leghissa. Mimesis 2016] riproponiamo alcuni interventi per
riaprire una discussione su un tema che, per la sua importanza, Antonio ha rinunciato a elaborare
ulteriormente, in quei modi affrettati a cui la contingenza l’avrebbe costretto, nonostante quella “piacevole
euforia” che comunque quella occasione gli aveva offerto. Il saggio di Ubaldo Fadini Post. A proposito
di una discussione sul postumano mette a confronto le posizioni di Caronia con quelle di Pietro
Barcellona che ha riflettuto sui rischi di un superamento di ciò che noi abbiamo sempre considerato come
umano. In modo molto puntuale la chiusa di Fadini sull’idea di libertà avvicina tutta questa discussione
all’attualità odierna, dopo una pandemia, devastatrice delle nostre menti ancor più forse che dei nostri
corpi, e nel perdurare di una guerra che è, pur negandosi tale, mondiale.


Questo intervento, per gentile concessione dell’autore Ubaldo Fadini, è stato originariamente pubblicato su Fogli di via. Ai margini dell’antropologia filosofica” (Clinamen, Firenze 2018)

Nella sua presentazione alla Lectio per il compleanno di Pietro Ingrao tenuta da Pietro Barcellona al Centro studi e iniziative per la riforma dello stato (CRS), Roma 2007, Mario Tronti sottolinea come nella “lezione” dello studioso siciliano ci sia una attenzione forte, di segno acutamente critico, a quel “passaggio dell’umano” non verso “qualcosa che lo supera, ma a qualcosa che l’abbatte. Non über, ma post”: “L’attacco dell’assetto attuale del mondo all’essenza-uomo è radicale, di una radicalità aggressiva, violenta, di una violenza insidiosa, ed è totale, va ormai dal luogo di lavoro al tempo libero, viene dall’alto e dal di dentro. È una mobilitazione totale, della scienza e quindi della tecnica, della comunicazione e quindi del linguaggio, dell’immaginario e del reale insieme, dove quello che accade e quello che si racconta, la vicenda e lo spettacolo, si confondono. Per smascherare l’apparato di questo scenario occorre mettere in campo una strategia complessa di analisi”. È appunto ciò che fa Barcellona ed è proprio su tale “mossa” teorica, estremamente sofisticata, che vorrei soffermarmi, per poi riprendere le “contro-critiche”, cariche di effetti originali di analisi, di Antonio Caronia, a cui affiancare infine alcune mie valutazioni del tema in oggetto, nel tentativo di delineare altre piste di ricerca.
Che cosa caratterizza il “passaggio” evidenziato da Tronti? Per Barcellona, soprattutto la difficoltà, considerata ormai insormontabile, a proporre la questione della differenza umana, vale a dire di ciò che ne istituisce la specificità. È pure in discussione la sensatezza della domanda sulla problematicità dell’essere umano, vale a dire su quella criticità di fondo, per via della sua ineludibile finitezza, che in fondo va a giustificare/legittimare la stessa organizzazione complessiva del sapere: “L’uomo non è più definibile neppure come campo di interrogazione. Non è più possibile stabilire né quando nasce né quando muore, è in gioco la stessa forma della finitezza umana. Il linguaggio, con il quale abbiamo cercato di porre ai contemporanei il problema di cos’è un uomo, si è svuotato di significato. La manipolazione tecnologica del vivente, la prospettiva di una nuova integrazione fra uomo e tecnica, fra uomo e macchina, determina un salto nella stessa evoluzione della specie e spiazza totalmente le prospettive e i linguaggi tradizionali. Siamo entrati nell’epoca del postumano e della coincidenza del mondo con se stesso, in cui la posterità si presenta come mutazione dello statuto antropologico che sconvolge tutte le coppie oppositive, tutti i criteri distintivi, attraverso i quali si è operata la distinzione tra natura e cultura, oggettivo e soggettivo, vivente e inorganico. Anzi, è proprio la categoria della distinzione/differenza che non riesce più a funzionare come ordinatore della realtà”.
Il venire meno del valore/valere della differenza è indicativo di una (volontà di) conciliazione di tutte le opposizioni, supportata dal rinvio ad uno scenario di carattere evolutivo che vede naturalmente selezionate tutte le risposte indispensabili per sopravvivere in un universo insensato che appare privo di senso. Realizzare il necessario “conferimento di senso all’insensato”– per riprendere qui la celebre formula primo-novecentesca di Theodor Lessing – è operazione oggi riferibile proprio all’affermazione di una sorta di intelligenza artificiale diffusa ovunque, sotto veste squisitamente immateriale, risultante dall’integrazione tra cervello e computer, tra umanità e dispositivi tecnologici. Ciò che appare, in prima battuta, come artefatto, strumento umano di ordinamento del caos, si presenta infine come stadio specifico della evoluzione della natura viva, contraddistinto dalla selezione dell’intelligenza calcolatrice (quella cioè strumentale) come fattore di una variazione continua, destinata a sfociare in una intelligenza universale, liberata da vincoli materiali. E a quest’ultima rinviano parzialmente tutte le facoltà/capacità umane che consentono – hanno consentito – di fare storia, di affrontare sempre diversamente il rapporto, meglio: lo scarto, tra il soggetto (con la sua intenzionalità) e l’oggetto, tra l’io e il mondo. Con l’affermazione di un processo privo di soggetto (in carne e in ossa, oltre che in “spirito”) viene meno anche l’oggetto, nel senso che la sparizione dell’intenzionalità soggettiva comporta l’annullamento della stessa possibilità di costituire un mondo storico-reale. Si è ormai entrati nel tempo della fine del tempo, di un uni/verso mai visto prima, rispetto al quale risulta spiazzato, per non dire: ricondotto alla sua inutilità di fondo, qualsiasi discorso sulla realtà e sulla storia, sulla differenza e sullo scarto (anzi, si potrebbe anche evidenziare qui come lo scarto persista, ma soltanto nel suo significato di residuo, di resto inessenziale, destinato alla liquidazione). Di fronte a questo scenario così inquietante, Barcellona si affida proprio al senso di inquietudine, alla rilevazione cioè che l’avvento di questa novità risulta comunque pensabile paradossalmente soltanto – ancora – con la misura della temporalità e con l’impiego di un linguaggio, di un tempo della parola, che come tale ripresenta lo spazio indispensabile per poter interrogare ciò che “passa” (il passato…), vale a dire quel luogo della memoria che si predispone naturalmente alla elaborazione eventuale di tempi a venire sulla base di una incertezza da trattare sempre differentemente e mai del tutto esauribile. Come sostiene Niklas Luhmann, a proposito della premessa di qualsiasi organizzazione (anche la “nostra”, quella di “base”, mi verrebbe da aggiungere…), questa è da vedersi proprio nella “non conoscenza del futuro” e nel fatto che siamo tenuti a trattarla concretamente, per non farla pesare troppo.
È questa incognita di fondo (traducibile anche in una persistente incertezza) a porsi come condizione di libertà, come fonte di una dialettica inesauribile tra la libertà e qualsiasi manifestazione di necessità. Riflettendo però sulla coppia libertà individuale e sviluppo delle forze produttive, che sta al centro della “civilizzazione” capitalista, Barcellona giunge a indicare la scarsa tenuta della contrapposizione tra modernità e postmodernità: la sua tesi è quella che non lega tanto il motivo del post-human all’affermazione di quest’ultima, quanto coglie il tema del postumano come carattere specifico di svolgimento della stessa logica di articolazione della modernità. L’accentuazione dell’indagine dello studioso siciliano è cioè tipicamente “anti-moderna”, a partire dall’idea che l’antropologia della modernità rappresenti una configurazione dell’individuo compreso unicamente come “soggetto di bisogni, destinato all’appagamento immediato”: da ciò deriva “che l’unico obiettivo che corrisponde a tale rappresentazione sia quello della massima espansione della ricchezza consumabile, al di fuori di ogni vincolo materiale dipendente da temporalità e spazialità tradizionali. La dissoluzione del mondo nell’apparato capitalistico-tecnologico istituisce un codice immunitario globale capace di garantire la sopravvivenza della vita oltre ogni condizionamento relativo ai limiti naturalistici dell’universo e della materia”.
È in quest’ottica che si insiste sulla “libertà dei moderni” intesa come aspirazione ad una potenza (e ad un potere) senza limiti, che si concretizza nello scioglimento da qualsiasi vincolo e quindi nella riproposizione della ineluttabilità dell’affermazione di un meccanismo votato esclusivamente a garantire il perseguimento di una pluralità inesauribile di scopi, di consumo e godimento: il principio di libertà si proietta così, identificandosi rigidamente e univocamente, sulla rilevazione decisiva della necessità dello sviluppo produttivo dell’insieme tecnologico, della megamacchina capitalista. Scrive Barcellona: “Per realizzare la contingenza della infinita pluralità dei bisogni, occorre accettare la necessità del modo di produrre che massimizza la capacità di creare ricchezza. L’orizzonte del post-human coincide con quello dell’evoluzione del capitale fino a divenire capitale cognitivo immateriale. Il vero telos della modernità è la sconfitta della finitezza e della mortalità, che unifica il pluralismo delle forme nella destinazione all’immortalità dell’essere. Sotto questo profilo, la modernità appare non solo coerente con gli esiti attuali, ma si manifesta per quello che rappresenta profondamente: l’aspirazione a una coincidenza di essere e divenire, di morte e vita, che proietti la singolarità individuale in un universo destinato all’evoluzione infinita del codice immunitario della natura vivente”. Il post-human si presenta quindi come prodotto tardo dell’ideologia moderna dell’“onnipotenza dell’autocostituzione della prassi e dell’immutabilità dell’essere”, un ennesimo discorso, in breve, sull’immortalità, su un destino di resa all’infinito dell’immagine dell’uomo soggetto di bisogni e del modo di produzione che meglio lo raffigura/ripresenta. È proprio a partire da questo quadro di analisi che si può insistere sul post-human nei termini di (espressione di) una radicalizzazione parossistica dell’immanenza del codice vivente al processo dell’evoluzione che taglia fuori qualsiasi rinvio ad una trascendenza, ad un fondamento, esaltando così una coincidenza di norma e fatto nell’ibridazione di vita e intelligenza artificiale, di uomo e tecnologia di rete. Cosa resta allora da fare, di fronte a quella che appare essere l’apertura dell’epoca del postumano? Barcellona insiste sui valori del limite/confine, della misura, della mediazione nei confronti di una realtà che gli appare inesauribile e dunque “sacra”, per dirla con Mircea Eliade (laddove il “sacro” coincide con questa idea di “realtà”). È proprio rispetto a quella antropologia fondata sulla trascendenza, vale a dire: sul rapporto costitutivo dell’umano con l’extra-umano (causa prima della delineazione di uno spazio simbolico in cui collegare significativamente l’esperienza del soggetto con una potenza superiore, a cui assegnare i motivi, le motivazioni, centrali del nascere, del vivere, del nutrirsi e dell’abitare… e dello stesso morire), che si può cogliere l’importanza della rottura rappresentata dall’affermazione dell’antropologia dell’autocostituzione dell’umano come soggetto svincolato e assegnato completamente alla sfera del mondano. A ciò corrisponde la dissoluzione del “sacro”, di ciò che non si lascia ricondurre al piano di ciò che è soggettivo (del soggetto e del suo pensiero); in definitiva, si delinea un processo di derealizzazione del mondo, di disconferma della sua autonomia strutturale, che si traduce anche nella negazione dell’altro (nonostante la retorica, oggi più che mai imperante, dell’altruismo) e nel trionfo di una onnipotenza di carattere narcisista. L’effetto più significativo di tale deriva consiste appunto, agli occhi di Barcellona, nel rigetto dell’essenziale “opacità” dell’essere altro, con la sua valenza di limitazione, di possibilità di rilevazione – ancora – del senso della misura, del limite, di un qualche principio di realtà che ridimensioni le presunzioni soggettive. Contrapporsi a tutto questo vuol dire riaffermare la finitezza e la parzialità singolare dell’essere nel mondo, una sorta di “mancanza” – per dirla con la terminologia concettuale dell’antropologia filosofica novecentesca – che si presenta però anche come “eccedenza”, capacità cioè di andare oltre l’“io”, nella sua veste attuale di presuntuoso soggetto assoluto: “L’alterità è il segno della impossibilità della reductio ad unum e della strutturale vocazione alla relazione fra il sé e l’altro. La testimonianza di una mancanza di essere che costringe a cercare, oltre i propri limiti, l’alterità che dà senso all’esistenza individuale. Ma, allo stesso tempo, è il segno dell’irriducibilità dell’esistenza umana al mero processo riproduttivo della specie, giacché essa si sottrae alle leggi naturali, biologiche e universali, in quanto mediata necessariamente dalla parola e dal linguaggio, che restituisce libertà a ciò che altrimenti sarebbe mera necessità naturale. Senza la parola, il linguaggio che separa l’istintualità dalla libertà, sarebbe impensabile l’amore fra il sé e l’altro, come dimensione specificamente umana di scelta fra possibilità e necessità”.
È dalla affermazione – espressione di un vero e proprio “bisogno di credere” (così Julia Kristeva nel suo Il bisogno di credere. Un punto di vista laico, 2006) – dello scarto tra la finitezza/parzialità umana e la totalità armonica dell’universo che discende la possibilità di ri-fare mondo, di concorrere soggettivamente alla realizzazione dello spazio dell’agire politico, alla ri-formulazione di ciò che la storia moderna sembra aver cancellato/liquidato con la delineazione di una dinamica che vede l’uomo ridotto a mero supporto delle macchine cosidette intelligenti, dell’intelligenza artificiale. La visione postumanistica del mondo consegna, a parere di Barcellona, il futuro della nostra specie alle dinamiche di ibridazione di macchine, sempre più sofisticate, e corpo umano ed è però proprio quest’ultimo, come gli stessi postumanisti sottolineano, a proporre una specie di resistenza finale ai tentativi di realizzare la coincidenza di artificio e natura, di tecnica e cultura: ciò accade perché il corpo è comunque ancora presente, in grado di provare emozioni e di esperire mutamenti. Tale supporto vale quindi come “scarto”/“residuo”, mai pienamente assimilabile in virtù del carico di passioni che lo specifica e che gli restituisce problematicità, criticità, individuandolo come un esistere secondo possibilità. La parzialità umana, valorizzata modernamente, si riproduce però tragicamente (e contraddittoriamente rispetto agli obiettivi – di dominio – perseguiti dalla modernità stessa) perché non appare totalmente risolvibile: “La tecnoscienza e il postumano non riescono a offrire altro che il prolungamento della vita presente, ma non possono risolvere l’enigma della finitezza/mortalità, giacché ‘non hanno il tempo’ per pensare oltre la circolarità della macchina vivente, nell’eterno presente dell’autoproduzione e della tautologia. Non c’è alcuna misura per cogliere la miseria tragica della finitezza”. Centrale risulta allora essere, in questa prospettiva, l’esperienza del dolore, di fatto insopprimibile, e legata proprio alla parzialità del soggetto umano, in quanto è anche in base ad essa – all’esperienza della finitezza/mortalità – che si costituisce la soggettività medesima e si ripropone incessantemente la questione del senso, la sua domanda. Da qui l’interesse rinnovato al “sacro”, con la sua ragione di misura e di limite, che consente di andare al di là del dato, di vedere l’oltre, l’altrove, l’altro, di fare infine i conti con il futuro senza tradurlo, parassitariamente, nella forma fantastica dell’utopia. In Barcellona, tutto questo si riveste anche religiosamente, con la ripresa del problema dell’esistenza di Dio (alla maniera di George Steiner), ma elementi di tale spinta – vitale – a ritrovare piani di effettuazione differente della parzialità soggettiva si possono ritrovare anche in altre voci del dibattito filosofico contemporaneo. Penso a Gilles Deleuze e al suo particolare invito, di sapore materialista, a credere nel mondo, ad avere fede in esso, per scoprire il fuori-interno a tutte le espressioni del vivente, oppure, come osserva Igor Pelgreffi, alle argomentazioni del “primo” Slavoi Zizek, mai completamente rigettate, che trovano tra l’altro espressione, come ricorda lo stesso filosofo sloveno, in Il dolore della differenza (Zalozba Obzorja, Maribor 1972), e che appaiono rivolte a fissare il soggetto, nel momento in cui prova dolore, ad una sua condizione di singolarità reale, che non può essere pienamente com-presa e risolta nel complesso dei rinvii impersonali di una qualche struttura (a partire da quella dei segni) o all’interno di un gioco di forze: tanto che si può assegnare a Zizek, anche nello sviluppo della sua indagine, una posizione teorica riassumibile nella bizzarra formula dello “strutturalismo esistenzialista”.
È nel “poscritto” (Dal cyborg al postumano) del suo Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale che Caronia sottolinea un passaggio di L’epoca del postumano nel quale Barcellona insiste – riprendendo le analisi di Tronti – sul fatto che “è la storia naturale della conservazione e riproduzione della specie” ad avere la meglio sul progetto di una umanità capace di emanciparsi dagli “imperativi biologici”, in modo da impiegarsi anche su piani non definiti unicamente da obiettivi economici. È questa “storia” ad aver avuto la meglio sulla “politica”, per riprendere ancora Tronti, ma ciò che cattura l’attenzione è la sua qualificazione “naturale”. In quest’ottica il postumano appare come l’esito di un processo che confina l’umano all’interno di uno scenario biologico-naturale (rappresentato come più vicino “alla vita dei primati che all’anelito spirituale di un rapporto con la divinità”). La stessa “fine dell’illusione umanistica”, tragicamente confermata dall’esaurimento della spinta rivoluzionaria primo-novecentesca, è ancor più enfatizzata e resa acuta dagli sviluppi “post-fordisti” dell’economia capitalista: questi ultimi veicolano, con maggior efficacia rispetto al passato, un’idea del venir meno del modello umanistico della soggettività, con la sua ipotesi di un fertile dualismo di corpo e mente. Barcellona ritiene, agli occhi di Caronia, che ci siano dei processi “autenticamente umani” in grado comunque di “trascendere” il dato naturale/biologico, raffigurato appunto ideologicamente dalla pseudo-“naturalità” del nostro modo di vivere (“borghese”) e di produrre (“capitalista”). Ciò conduce all’affermazione di una sorta di “naturalismo” che pretende di identificare – tra l’altro – il soggetto (in effetti contingente, storicamente determinato) con una presunta “natura umana”, al fine di mantenere aperta una dimensione “antropocentricamente” postbiologica: “Al preteso naturalismo della borghesia si contrappone così un trascendentalismo dell’uomo, che non può avere fondamento (…) se non in una separazione dualista tra mente e corpo. Il trascendimento del biologico, insomma, non è che una posizione spiritualista o idealista che rientra dalla finestra dopo essere stata cacciata dalla porta. Che cosa significa fare appello al ‘dover essere’, al ‘valore’, a un ‘principio di validità opposto alla normatività immanente del progresso economico’? (…) Significa ammettere che sul terreno del soddisfacimento dei bisogni, sul terreno della pura ‘biologia’, il capitalismo ha già vinto e che per superare il capitalismo bisogna trascendere quel terreno e porsi su un piano superiore, valoriale, che superi la biologia. Ma rifiutare il postumano in nome di un ‘ritorno all’umano’, di un antropocentrismo riaffermato orgogliosamente come unico ambito possibile per la produzione del senso, può significare soltanto rifiutare idealisticamente le nuove condizioni della vita associata e della produzione sociale, dal cui interno soltanto può maturare la ricerca di pratiche e sperimentazioni che superino l’esistente”.
Riproporre una distanza certa tra l’uomo e il resto del vivente significa ribadire una autonomia a cui affidare il sogno (o l’incubo) di una uscita definitiva dal biologico: l’idea-chiave di una simile posizione teorica è da individuare nella considerazione di ordine “fissista” della natura umana, in una concezione fondamentalmente “essenzialista” che pretende di cogliere caratteri “distintivi positivi, individuabili, descrivibili”. Tale tentativo si conclude però spesso nell’errore di scambiare per “natura umana” ciò che appare invece come un complesso di elementi storicamente determinati e quindi soggetto (oggetto) di trasformazione, di cambiamento. Caronia ha in mente, in definitiva, un’idea di natura umana estremamente duttile, variabile, portata a relazionarsi/ibridarsi culturalmente a partire senz’altro da una unitarietà a sfondo biologico che non può essere negata: per evitare però l’oscillazione tra forme di banale e un po’ ingenuo ottimismo tecnologico e di monolitico catastrofismo è opportuno modificare radicalmente la visione del valore indiscutibile dell’antropocentrismo e del suo correlato, l’essenzialismo.
L’invito di Caronia è dunque a non appellarsi ancora ad un ennesimo ritorno della politica nella veste più scontata (rispetto agli sviluppi dell’economia postfordista e dei recenti e assai critici processi di finanziarizzazione) e soprattutto a non riproporre una sorta di nostalgia di un umanesimo considerato impropriamente in grado di porre un freno all’avanzata di quella condizione postumana che richiede l’elaborazione di nuovi strumenti concettuali, proprio rispetto alla sua odierna configurazione da parte dei poteri economici e politici. Alla base di una tale sollecitazione a lasciarsi alle spalle soluzioni appunto già tramontate sta l’articolato lavoro di indagine attorno ad una delle figure più rilevanti dell’immaginario novecentesco, quella del cyborg, che trova espressione sia nel giustamente fortunato Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale sia, ovviamente in modo più sintetico, nella “voce” dedicata sempre al cyborg presente in Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, del 2001. In maniera efficace, Caronia rimarca in quest’ultimo testo come l’ibridazione dell’umano con l’artificiale sia una prospettiva ineludibile che si delinea appunto attraverso quella figura del cyborg così determinante a livello di “immaginario” e di “reale” nel contemporaneo. È in questo senso, che coinvolge – per quanto mi riguarda – anche il processo del divenire postumano, per dirla con Rosi Braidotti, che si sottolinea l’importanza di una indagine attenta a cogliere della condizione del cyborg i suoi “elementi di ibridazione e di imbastardimento, di relatività della storia e di radicamento sociale e sessuale dei linguaggi”. Il rinvio è qui al Manifesto cyborg, di Donna J. Haraway, rispetto alla quale Caronia si chiede: “Perché Haraway propone di fare del cyborg un ‘mito politico ironico, fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo, ma come l’empietà, e non come la venerazione e l’identificazione? Perché sa che ogni logica del dominio, ogni sistema politico e sociale basato su una dialettica tra centro e periferia ha a che fare con un mito della purezza, con un culto dell’origine. E invece ‘nei cyborg non c’è la pulsione a produrre una teoria totale, c’è una intima esperienza dei confini, della loro costruzione e decostruzione’. Se l’ibridazione con la macchina ci consente di giocare con i confini dell’identità e del lavoro, della produzione e della riproduzione sociale, perché non usare queste possibilità per sfuggire alle tenaglie del pensiero (e del comportamento) unico?”.
È in quest’ultima prospettiva che si può riflettere sulla formula – proposta da Caronia – del “cyborg postfordista”, senza che ciò rimandi a qualche dogmatica che si pretenda ancora dotata di decisiva radicalità. L’ibridazione con determinate tecnologie è infatti concretamente percepibile come una delle modalità di articolazione di pratiche di assoggettamento della vita degli esserei umani alle logiche della globalizzazione economica. Il “cyborg postfordista” rappresenta al meglio – per via del suo rapporto specifico, di compenetrazione, con le tecnologie che gli vale anche come incremento dei suoi potenziali relazionali e cognitivi – un processo di ricombinazione/ricomposizione di una forza lavoro contraddistinta da frammentazione e da una esistenza divisa e dispersa ma comunque poi connessa e resa comunicabile anche e soprattutto sul piano della “virtualità”, ricollocata, sotto tale veste, all’interno dell’odierno processo di valorizzazione capitalista. Di tale processo va svolta un’analisi attenta, quella che si può rinvenire nei testi di numerosi sociologi, economisti, storici, rivolta però – per quanto mi riguarda ed è questa la situazione da cui muove la mia ricerca – a verificare la tenuta appunto analitica, il loro carattere proficuo/fertile, di concetti come postumano e, su un altro piano, “post-storico” (così come lo si ritrova ad esempio esposto nell’opera di Lewis Mumford). Il mio punto di vista è, in breve, quello investe le trasformazioni più significative dell’attuale soggetto di lavoro, in tempi di “capitalismo post-fordista” o, meglio ancora, di capitalismo biocognitivo, che esprime, come ha sottolineato Christian Marazzi, una sorta di introduzione all’interno della sua soggettività lavorativa, nel suo corpo vivente, di funzioni produttive (di segno strumentale, per così dire…), di elementi di “capitale fisso”. La forza-lavoro contemporanea, all’altezza di quello che Richard Sennett presentava, un po’ di tempo fa, come new capitalism, appare ormai come una sorta di contenitore vivo di funzioni di capitale fisso e di capitale variabile, di materiali di lavoro “passato” e di espressioni di lavoro “presente”, vitale/vivo. È opportuno rimandare, nell’ottica qui delineata, ad un “passo” di André Gorz, che esemplifica con notevole chiarezza alcuni dei motivi da me richiamati: “Il capitale fisso umano non è, come il capitale fisso ordinario, del lavoro morto ‘oggettivato’ o messo in opera dal lavoro vivo. Esso è, al contrario, della stessa natura del lavoro vivo. Risultato dell’attività e delle esperienze proprie dell’individuo sociale. Il capitale fisso umano non è soltanto tutto suo, è lui stesso frutto della sua capacità di prodursi da solo. Ne consegue che neppure gli individui sviluppati hanno avuto bisogno di un’impresa capitalista per mettere in piedi ‘il loro capitale’, ossia le loro capacità, in modo produttivo. Essi possono in linea di principio emanciparsi dal capitale, sottrarsi al capitalismo per autoprodurre dei beni materiali e immateriali per il proprio uso sottraendoli alla forma valore, cioè alla forma denaro, alla forma merce. Questa possibilità di sottrazione e dunque di appropriazione del lavoro che è anche rifiuto e abolizione del lavoro, apre nel sistema una breccia attraverso la quale può in linea di principio avviarsi un esodo dalla società del lavoro e della merce”.
All’allargamento concreto di tale “breccia” sembra ben disposto il rinnovato protagonismo del capitale variabile, nella individuazione della sua disimmetria dal capitale complessivo, quello “scarto” che può spingere anche nella direzione di una sua messa in forma potenzialmente e parzialmente indipendente. Insistendo sull’inserzione del capitale “fisso” nel “variabile”, ri-articolando il ragionamento sul “plusvalore” (che è di ordine anche “macchinico”, come sostenevano un po’ di tempo fa Guattari e Deleuze), tenendo relativamente fermo il fatto che quando si parla di sviluppo tecnologico bisogna sempre ricordare che esso avviene in ogni modo all’interno del processo di valorizzazione capitalistico (cioè che il processo lavorativo è insieme processo di valorizzazione), è possibile senz’altro smarcarsi da quell’indagine a proposito del rapporto tra l’uomo e la tecnica che ha oscillato – e lo fa ancora oggi – tra due polarità: quella che vede la tecnica come una dinamica di compensazione e/o ridispiegamento di caratteristiche specifiche della natura umana e quella che registra nella progressione tecnologica la concretizzazione a livello “destinale” di una perdita di protagonismo da parte del soggetto umano. In breve: per andare oltre la versione tradizionale del rapporto tra il soggetto e la tecnica caratterizzata in senso adattivo o sostitutivo/compensativo, che “precipita” in alcune modalità espressive del cosiddetto tecno-vitalismo che confluiscono nel discorso complessivo del post-umano (per non parlare poi della riproposizione di pulsioni “superomistiche” o di mortificazioni “destinali”), mi sembra essenziale insistere su quella che appare essere una dinamica restituibile nella veste di introduzione di funzioni produttive e significative all’interno del corpo vivente del soggetto-di-lavoro, con effetti rilevanti sulle qualificazioni sociali e politiche di tale soggettività nel quadro della trasformazioni del capitalismo contemporaneo.
È in questa prospettiva che riprendo alcune osservazioni di Rosi Braidotti, del suo Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, piegandole, anche criticamente, in direzione di un protagonismo del tecnologico (reso comunque parziale per via del quadro odierno – già tratteggiato – del capitalismo). A me sembra importante sottolineare come anche a partire dalla rilevazione di tale protagonismo si possa coglierne un effetto di sostanza nella messa in crisi dell’immagine progressiva dell’uomo “civilizzato” (mediamente sobrio, misurato, socievole…) come esito indiscutibile dei processi di modernizzazione: è piuttosto ragionevole ipotizzare, anche in un’ottica antropologica (culturale), una sorta di ritorno al “tribale”, al “selvaggio”, comunque a una modalità associativa che sostenga al meglio, anche nella forma veicolatrice della “community”, la stessa innovazione tecnologica. In breve, si deve insistere sulla base materiale del discorso del postumano, anche e soprattutto nel momento in cui quest’ultimo evidenzia tratti marcatamente ideologici, dato che esso appare strettamente connesso con specifiche trasformazioni delle relazioni sociali e delle forme di valore (nella società contemporanea). In quest’ottica, Braidotti è attenta a segnalare la funzione decisiva della struttura tecno-scientifica per gli sviluppi dell’economia globale contemporanea, prendendo atto di come ci si trovi di fronte ad un mondo radicalmente modificato e ri-disegnato in senso iper-tecnologico: è rispetto alla progressione impetuosa delle diverse branche della tecnologia (“nanotecnologie, bio-tecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive”), nel quadro proprio di un capitalismo dotato infine di struttura biogenetica, che si impone un compito di difficile risoluzione, vale a dire quello “di trovare nuovi modelli alternativi di responsabilità”. Contro le nostre “abitudini mentali consolidate” va fatta valere l’indicazione di Donna J. Haraway, per la quale oggi le macchine sono sempre più “vive”, mentre gli uomini risultano particolarmente “inerti”. Ma Braidotti insiste con ragione a riproporre una tesi “forte”, cioè che l’“economia politica biogenetica del capitalismo” porta con sé un progressivo venir meno della distinzione netta “tra la specie umana e le altre, da momento che ricava profitti” da tutte loro ed è quindi, in una qualche maniera, “postantropocentrica, nella sua stessa struttura, ma non necessariamente e automaticamente postumanista. Questo capitalismo tende inoltre ad essere profondamente inumano (…). La dimensione postumana del postantropocentrismo può quindi essere letta come un movimento decostruttivo. A essere decostruita è la supremazia della specie, ma a subire un duro colpo è qualunque nozione invariante di natura umana, di un anthropos e di un bios come categoricamente distinti dalla vita di animali e non umani, ovvero dalla zoe. A venire in primo pian, invece, è il continuum natura-cultura nella struttura incarnata della soggettività estesa. Si tratta di un cambiamento che può essere interpretato come una sorta di esodo antropologico, una fuga dalla concezione dominante dell’Uomo come signore incontrastato del creato (Hardt e Negri) – una colossale ibridazione della specie”.
La “soggettività estesa” e l’“ibridazione della specie” mi sembrano formule efficaci soprattutto là dove richiedono un supplemento di analisi collegato a trasformazioni/metamorfosi antropologiche (tecno-antropologiche) da cogliersi materialisticamente e storicamente, anche con il supporto tematico fornito dalle relazioni odierne tra ciò che risulta “fisso” e “variabile” all’interno di processi di lavoro che sono insieme processi di valorizzazione. Riprendendo la terminologia postumanista, si può dire che non iniziano a cadere soltanto i confini tra “l’uomo e gli altri da sé”, ma che sono le stesse linee di frontiera a rivelarsi nella loro provvisorietà/revocabilità all’interno del corpo vivente del soggetto contemporaneo, con la pluralità di forze (in senso spinoziano) che lo contraddistingue e che concretizza modalità di combattimento non più semplicemente tra-, bensì anche “infra”. È proprio per cogliere quest’ultima modalità, nelle zone odierne di soggettivazione, nei territori di esistenza che incessantemente si aprono e si chiudono, che appare opportuno disegnare delle vere e proprie carte di intensità in grado di restituire le ragioni e le movenze/figure di un “combattimento incerto”, di un “atletismo del divenire” (con Deleuze…) che esprime delle forze che non è detto che siano sempre ricondotte agli abiti del “dovere” e alle traiettorie previste di un “vissuto” ben educabile e più o meno tranquillamente gestibile. Fa dunque capolino qui – e ritengo anche nel testo di Braidotti – il progetto di una “impresa di salute”, nella quale si manifesta una fonte o un soffio della/nella vita che l’autrice di In metamorfosi traduce parzialmente in una “etica della co-determinazione” (che indica un primato del concetto di dipendenza reciproca tra soggetti in riferimento all’acquisizione di identità instabili, mobili, non fissate, come avviene invece nel momento in cui si privilegia il concetto di riconoscimento), da affiancare all’articolazione di politiche effettivamente “propositive”, capaci cioè di favorire pratiche di autotrasformazione accompagnate dalla consapevolezza, per dirla con i “classici”, che di libertà si può parlare nel momento in cui la si comprende come accettazione ragionevole della “necessità”, di una necessità che è data nelle veste del limite, di un qualcosa che però non è destinato a restare sempre lo stesso ma che può presentarsi anche in modi differenti.


NOTE
Mario Tronti, Prentazione a Pietro Barcellona, L’epoca del postumano. Lezione magistrale per il compleanno di Pietro Ingrao, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2007, p. 8.
Pietro Barcellona, L’epoca del postumano, cit., pp. 12-13.
Cfr. Niklas Luhmann, Organizzazione e decisione, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 4 (sia consentito qui ancora il rinvio ai miei Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, Ombre Corte, Verona 2013 e Il tempo delle istituzioni. Percorsi della contemporaneità:politica e pratiche sociali, Ombre corte, Verona, 2016).
Pietro Barcellona, L’epoca del postumano, cit., p. 33.
Ivi, p. 34.
Ivi, pp. 40-41.
Ivi, p. 50.
Traggo queste indicazioni da Glyn Daly – Slavoj Zizek, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Conversazioni con Zizek, introduzione di Sergio Benvenuto, Dedalo, Bari 2006, soprattutto p.55, oltre che dallo studio complessivo sulle tesi del filosofo sloveno realizzato da Igor Pelgreffi: Slavoj Zizek, Orthotes, Salerno 2014 (in particolare cfr. pp.27-30).
Antonio Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake Edizioni, Milano 2008, pp. 145-146.
Antonio Caronia, Cyborg, in Adelino Zanini e Ubaldo Fadini (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 89-90.
André Gorz, Pensare l’esodo dalla società del lavoro e della merce, in “Millepiani”, 33, 2008, pp. 17-18 (sia permesso qui un rinvio ai miei La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete, prefazione di Pietro Barcellona, Dedalo, Bari 2009 e Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, Ombre Corte, Verona 2015 oltre al già ricordato Il futuro incerto).
Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 73.