Social press

“Nel 1999 la rivolta di Seattle mi aveva convinto a tornare a forme di impegno più interne ai nuovi movimenti, ma la maturazione di questo mio orientamento fu più lunga del previsto. La morte di Carlo Giuliani a Genova nel luglio del 2001 accelerò il processo, tanto più che Carlo era stato assassinato proprio in quella piazza Alimonda in cui avevo trascorso tutta la mia infanzia“.

SocialPress nasce nell’autunno del 2002, poco dopo l’ingresso di Antonio Caronia nel collettivo che nei due anni precedenti ha animato il Social Forum milanese della comunicazione. “Un gruppo animato, fra gli altri, da Marco De Filippi, che avevo conosciuto come studente quando insegnavo all’ ITSOS di Bollate tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta. In quel gruppo maturò, anche col mio contributo, una decisione avventata ma che si rivelò felice”.

Come quotidiano autofinanziato e autoprodotto, SP viene stampato durante le giornate del primo Forum Sociale Europeo di Firenze, registrando oltre 10.000 copie vendute in quattro giorni. Negli anni successivi, con una redazione collegiale diretta da Caronia fino ai primi mesi del 2005, la testata si affianca al “movimento dei movimenti” e al nascente movimento contro la guerra, a cui offre una voce e non un megafono, anche attraverso una serie di numeri tematici su Iraq, crisi climatica, rifiuto del lavoro, finanza e territori.

Dal novembre 2003, in occasione del secondo Forum Sociale Europeo di Parigi, Social Press diventa anche un sito web raggiungendo decine di migliaia di lettori ogni mese, equivalenti alle centinaia di migliaia di oggi. SP – sito, rivista e gruppo – nasce al di là di ogni sigla e appartenenza “per condividere storie, iniziative, saperi tra chi, scegliendo di opporsi a questa globalizzazione, propagandata nell’interesse di pochi potenti, affronta oggi un compito del tutto nuovo per un movimento: costruire un’alternativa “dal basso”, elaborando contemporaneamente gli strumenti della sua radicalità e della sua crescita”.
Il collettivo redazionale, con base a Milano, raggruppa un folto nucleo di giovani precari della comunicazione, dell’informatica, del giornalismo, della fotografia. Si va dal project manager di un noto portale Internet all’esperta di commercio equo solidale, dalla grafica editoriale all’operatore video ma anche a molti giovanissimi privi di qualsiasi esperienza giornalistica. Social Press non è solo una delle tante iniziative nell’area del cosiddetto “mediattivismo” – per usare un termine in voga negli anni ‘00 – è anche il melting pot dove almeno tre generazioni di attivisti – quella di Genova 2001, quella degli anni ‘80 e della Pantera e quella dei lunghi anni ‘70 italiani – si incontrano e si riconoscono forse per la prima volta nella condizione di “cognitariato” (altra parola chiave dell’epoca). Al centro di questi scambi, Caronia è soggetto e tramite nell’evoluzione del gruppo. Come leader inter pares rilancia una linea di pensiero e d’azione che ora forma giorno per giorno, nell’ansa dell’azione collettiva, del processo e del conflitto sociale.

In una fase successiva (2004-2005), con una serie di articoli pubblicati sul sito a firma dell’alter ego Egom Zorobian, Caronia prova anche a interpretare “dal basso” i flussi della metropoli che in quegli anni hanno cominciato a ridisegnare Milano. “Il personaggio di Egom mi uscì dalla tastiera senza che quasi me ne accorgessi…Questo architetto (o designer) di padre armeno e madre italiana, nato a Zagabria, trasferitosi in Italia nella speranza di mettere a frutto i suoi studi (mentre si guadagnava da vivere in un’ impresa di pulizie).. non solo mi consentiva una libertà di espressione (parlo di rapporto con me stesso e non con il collettivo) che non avrei avuto firmando con il mio nome ma preparava forse, anche se non ne ero cosciente, le esperienze con altri nomi fittizi – ma non per questo meno vivi – a cui avrei partecipato pochi anni dopo”.

Fabio Malagnini


I bambini appesi

Mi dispiace per quel signore che è caduto dall’albero e si è fatto male.lo a voi italiani non vi capisco. Vi scaldate per cose così futili e ne lasciate passare di ben peggiori. Questa settimana l’impresa di pulizia mi ha mandato a lavare le scale a Lorenteggio, perciò da piazza XXIV Maggio non sono passato, e i bambini impiccati non li ho visti. Ho visto solo una foto sul giornale che mi ha fatto vedere il mio amico Pino, ma era piccola e non si capiva granché. Qui a Lorenteggio non ne parla nessuno, ma sarà perché i portinai sono tutti dell’Ecuador o della Colombia, e gli italiani con me parlano poco. Pino dice che questo artista, Catellan o Cattelan come si chiama, è un gran furbo, che fa delle schifezze che le gallerie gli pagano a peso d’oro, e che è un segno della mercificazione dell’arte. Sarà: a me sembra che l’arte sia sempre stata così. perché, a Michelangelo non lo pagavano i papi? Fa differenza un papa o un gallerista? I quadri o le sculture o le installazioni li comprano i ricchi, da sempre.
Va bene, ma “sarà arte?” Vedo che questo si chiedono i giornali, o – dicono – l’opinione pubblica. A me, anche questa domanda sembra poco interessante. Quando riesco ad andare a vedere una mostra, guardo le fotografie o i quadri, e mi piacciono o non mi piacciono. Se uno fa tre manichini di bambini e li appende da qualche parte, questa è una scultura — o un’installazione, come la chiamano adesso, no? La gente guarda, dice “bello,” “brutto,” “cosa significa?” “grazie,” guarda ancora o gira gli occhi. “E una provocazione,” ha detto qualcuno. Be’, forse allora il problema sta nel posto in cui li hanno messi. L’anno scorso lavoravo a Brescia, un amico mi porta a vedere una mostra in una galleria (non mi ricordo affatto il nome dell’artista) e vedo un manichino di Berlusconi appeso al soffitto della galleria a testa in giù: e una serie di Insulti al primo ministro sparsi in giro sulle pareti. Forse era una provocazione anche quella, ma non mi risulta che ne abbia mai parlato nessuno; forse i critici d’arte, o qualche altro artista, o quello che ha la scultura (se qualcuno l’ha comprata). Qui, invece, gli impiccati sono stati appesi in una piazza, a un albero, dove tutti potevano vederli. E infatti quel signore che li ha staccati e poi è caduto, l’ha fatto – dice – perché il suo nipotino si era impressionato. Era suolo pubblico soldi pubblici mi sembra di no, perché i quattrini li ha messi la Fondazione Trussardi. Però il sindaco ha dato il permesso e – sembra – non ha neppure fatto pagare una tassa di concessione. Ma capisco che a Pino, e a quelli come lui, dia fastidio che l’ arte debba essere sostenuta dal potere —dal potere economico della moda, o da una giunta di destra che così può far vedere”di essere favorevole alla libertà di espressione.
Quello che mi sembra interessante, di tutta questa faccenda, riguarda però proprio il rapporto fra l’ arte e la vita pubblica. È qualcosa che va al di là delle intenzioni dei protagonisti. Perché l’ artista, Maurizio Cattelan (sì, è questo il nome) aveva dichiarato di aver voluto porre il problema dell’ infanzia maltrattata e nessuno ha discusso di questo, perlomeno non nel senso che voleva lui. Il Comune si è diviso sulla questione, perché la Lega e un altro partito hanno fatto una cagnara attaccando anche Albertini, e hanno detto che avrebbero tolto i manichini dall’ albero (poi quel signore poveretto l’ha fatto prima di loro). Però ne hanno discusso, e quindi oggettivamente hanno fatto il gioco dell’ artista, che intendeva proprio suscitare un vespaio. E per ultimo, anche il signor De Bernardo, che si è indignato e ha staccato due dei finti bambini dall’ albero, che cosa ha provocato? Che effetto ha avuto la sua azione? Dopo la sua bravata, quei manichini è come se ci fossero ancora, sull’ albero, ci sono quasi più adesso che non ci sono che prima che c’ erano. E in fondo, con la sua bravata, ha fatto parte anche lui dell’ opera di Cattelan, è stato un autore insieme all’ artista. L’ installazione di Cattelan si è trasformata in una performance di Cattelan-De Bernardo.
Effetti perversi di questo intreccio fra arte e media, fra cultura e media: è quello che voi europei occidentali avete esportato in tutto il mondo, anche nel mio paese. E Pino, che dice sempre che i cittadini devono uscire dalla passività, che devono organizzarsi per far sentire la propria voce, perché non è contento? De Bernardo non si è attivizzato, non ha fatto sentire la sua voce? Forse non nel modo che piace a Pino, ma l’ha fatto. E questo vuol dire che si può fare: che ogni cittadino può dire la sua e anche fare la sua. Che l’ arte è ovunque. Che c’ è arte ovunque c’è progetto, ogni volta che il mondo (un pezzetto di mondo) viene percepito sotto una luce nuova. Se non mi ricordo male, era quello che dicevano e facevano già un secolo fa le avanguardie storiche, e quel pazzo francese di Marcel Duchamp. Basta, vado, sono in ritardo, le scale devo lavarle io, mica me Ie lavano Duchamp o Cattelan.

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