La fantascienza dopo la morte della fantascienza

Pensare con Antonio Caronia. La fantascienza dopo la morte della fantascienza.

“Perire significa assumere una nuova funzione nel processo di generazione.”        

Alfred North Whitehead, Avventure d’idee

“Tutta la mia vita è riportarla nell’indeterminato. (…) Mi incazzo quando mi dicono che mi occupo di fantascienza; non è vero, non mi sono mai occupato di fantascienza, non mi sono mai occupato di filosofia… mi sono occupato, credo, in primo luogo di me stesso, come tutti noi dobbiamo fare.” [1] “Quello che conta non sono la letteratura, la filosofia ecc. ma sono le trasformazioni attraverso queste esperienze che facciamo su noi stessi (letterarie, artistiche, filosofiche ecc.). La cosa più importante nella vita di un essere umano è l’essere umano…  non è quello che lui è, quello che lui diventa.” [1 – Macao] 

Siamo alla fine di una vita; quei bilanci che costantemente tutti noi siamo portati a fare lungo l’arco della nostra esistenza, al termine del viaggio diventano carichi di una valenza definitoria.

Ma ritorniamo indietro di trent’anni dove Antonio incomincia a parlare, con una certa insistenza, della morte della fantascienza o, comunque, del fatto che sia “praticamente morta o, se ancora vivacchia, è proprio moribonda: il che, però, è uno splendido sintomo della suo ottimo stato di salute.” [2 – Introduzione a I libri del possibile] E così continuerà a “occuparsene” per il resto della vita. 

E se alla fine ci dice di non essersi occupato di fantascienza quanto, piuttosto, di riportare la vita nell’indeterminato, è da questo nodo, questa apparente incongruenza da cui occorre partire per cercare di seguire le tracce di un interesse per un genere popolare che lui stesso definiva moribondo o defunto del tutto. 

Per Antonio Caronia la fantascienza è letteratura onnivora e adolescenziale (adolescenziale tanto quanto lo è l’umanità) assume la scienza pura e applicata (scienza e tecnica) per quello che essa realmente è, la più potente forza di modificazione dell’immaginario collettivo. Capace di creare in prima istanza IMMAGINI e PAESAGGI.

La fantascienza ha avuto la fortuna (in realtà la necessità) di nascere nell’ultima stagione del mito dell’espansione illimitata della produzione. 

La fantascienza è un gigantesco repertorio dell’immaginario contemporaneo, una massiccia raccolta di studi sulla psicologia dell’uomo che verrà, un’esplorazione sistematica e vorticosa dei paesaggi che qualcuno, dopo di noi, abiterà. 

Questa è la ragione della sua morte. [2]

Cioè la fantascienza è stata un dispositivo usato come transito verso la fine di un’epoca. Un’epoca che come dice  Bruno Latour [Disinventare la modernità, conversazione con F. Ewald] ha visto  la comparsa di  “esseri che, nella breve parentesi di tre secoli (compaiono verso la fine del diciassettesimo secolo e scompaiono alla fine del ventesimo), vivono in uno scenario sorprendente nel quale si arrogano la distinzione fra costruttivismo e realtà, fra natura e società, e al contempo costruiscono alcune fra le società dove i cosmi sono più mescolati, dove le proprietà intrinseche della materia si confondono con le definizioni dell’ordine sociale. Qualunque cosa si dica, i moderni non sono quelli che in definitiva si affrancano dalle conseguenze soggettive del mondo; al contrario, sono quelli che mescolano, che sono capaci di fare l’esercito e l’atomo, la guerra e la bomba atomica, quelli che legano la genetica al concetto di paternità e di maternità in maniera intima, più intima di qualsiasi altro popolo. E contemporaneamente sono gli stessi che esigono sopra ogni cosa di non legare l’ordine del mondo alla soggettività dei valori.” 

Abbiamo quindi la fine di un’epoca e la fine di un uomo, di quell’uomo che Foucault descriveva come un’invenzione “di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima.” 

La morte della fantascienza quindi come processo conclusivo di questo passaggio. Non si da il nuovo se prima non muore il vecchio. Dichiarando la fantascienza come morta Antonio Caronia ne può rilevare l’ottima salute del suo nuovo stato nascente, tutto da definire, da risignificare come la nuova epoca che stiamo vivendo e contribuendo, nel bene e nel male, a edificare. 

Per Donna Haraway la fantascienza “è un gioco pericoloso in cui si mondeggia e si storieggia, un gioco che ci fa restare a contatto con il problema.” “L’acronimo FS sta per fantascienza, femminismo speculativo, fabula speculativa e fatto scientifico, ed evoca un grande gioco della matassa.” “i mondi FS non sono contenitori; sono pratiche di modellamento, co-creazioni rischiose, fabule speculative.”

Siamo di fronte a un nuovo dispositivo, con nuove funzioni e totalmente da risignificare. 

Leggendo testi recenti sulla fantascienza ci si accorge di come la maggioranza di questi parta da una concezione vecchia e fossilizzata che privilegia la continuità, in una concezione lineare e progressiva, priva di soluzione di continuità. Deriva dalla paura e negazione della morte come costituente della nostra realtà. 

Primo Moroni ci esortava a: “dire sì al dramma esistenziale, alla non paura di morire un’altra volta di sé, della propria provvisoria identità precedente, eppure conquistata con tanta fatica, per rinascere non tanto più forti quanto più complessi, quanto più disponibili e dotati di tante vite e non di una singola appartenenza.”

È il concetto di morte, di come si possa rapportare il nostro comune destino del perire a quello del mutare, cioè a quel dover divenire costantemente altro da ciò che ci vorrebbe determinati in un’unica essenza definita. e quindi non più soggetta all’indeterminatezza che ci caratterizza in quanto esseri viventi. 

Riassumendo? “La fantascienza nasce negli anni 1920 sulle riviste pulp americane e muore negli anni 1980 con il fenomeno del cyberpunk.”  Delimitato il genere entro ben definiti confini spazio-temporali non resta che precisare le motivazioni di tale scelta: “Vero, non vero, azzardato? Sgombriamo il campo da inutili discussioni: è un’affermazione né più vera né più falsa di altre, che pure sono possibili. A noi sembra semplicemente più utile.” [3 – Introduzione 2012 Nei Labirinti della Fantascienza] E l’utilità nel circoscriverne i confini spazio-temporali sta nell’evidenziarne il carattere primario di dispositivo. La sf non ha costruito semplicemente un immaginario che si impone in quanto tale, che amministra dall’alto i futuribili auspicabili o temibili, proiettando sullo schermo dell’orizzonte aspettative, proiezioni di scenari possibili e quant’altro. È, in modo più pervasivo, un vero e proprio dispositivo, cioè “innanzitutto una macchina che produce soggettivazioni.” [Agamben, Che cos’è un dispositivo] E se è solo in quanto fautore di soggettivazioni che un dispositivo può ambire ad essere “anche una macchina di governo”, la sf può (deve) essere considerata tale proprio grazie alla sua capacità di processare nuove soggettivazioni che prevedano quelle correzioni e invenzioni di nuove parole in grado di sopperire all’inadeguatezza di un linguaggio sempre più obsoleto di fronte alla velocità esponenziale delle trasformazioni tecno-scientifiche in atto. Potremmo dire, ricorrendo a un’opera della sf classica come City, per far fronte alla necessità di un adattamento psicologico delle masse alle mutate condizioni del Progresso.  Dispositivo quindi che per governare, cioè in questo caso per costruire un immaginario all’altezza delle esigenze di una società in veloce e costante trasformazione, deve costruire soggettività capaci di un’estrema plasticità. Una plasticità in grado di rispondere alle varie poste messe in gioco in questa Modernità all’apice della sua crescita (definita da alcuni come già post-moderna) per poterle sottoporre ad aggiustamenti continui costantemente verificabili. Fondamentale, da questo punto di vista, il ruolo che la sf, come dispositivo, ha saputo svolgere rispetto alla tenuta psichica umana di fronte alla ripetuta disgregazione degli automatismi e della conseguente routine dei comportamenti necessaria alla sopravvivenza di qualunque sistema sociale, dovuta alla velocità delle trasformazioni indotte dal progresso tecnico-scientifico. Trasformazioni che se un tempo si misuravano nell’arco di migliaia di anni, poi di secoli, nell’ultimo secolo e mezzo avevano raggiunto il ritmo decenni se non addirittura singoli anni. 

Antonio sulla fantascienza:

[1982Le scienze della fantascienza

Quando si vuole caratterizzare precisamente l’atteggiamento scientifico di contro ad altri (precedenti, o soltanto diversi) atteggiamenti conoscitivi, si è soliti far riferimento a una rigorosa separazione fra indagine del reale e fantasticheria, fra esplorazione del documentato (o del documentabile), e congettura sul possibile. Una tale separazione non è rintracciabile in tutte le culture umane conosciute, né la si ritrova, nella storia della cultura occidentale, in tutte le epoche. Essa è caratteristica del metodo di indagine e del modo di pensare che si introdusse, e non senza difficoltà e sconvolgimenti, come sappiamo, fra il XVI e il XVIII secolo ad opera dei fondatori di quella che è stata chiamata la ‘rivoluzione scientifica’.

  •  [I. Stengers, La grande partizione, ] “Sembra in effetti che ogni volta che una scienza, in senso moderno, si è costituita, l’abbia fatto riprendendo questo grande tema della partizione.” “Partizione fra l’opinione e il sapere razionale, partizione fra i sofisti e i filosofi…” 

…sembrerebbe davvero non esservi alcun contatto possibile tra la scienza e la fantascienza, e sarebbe del tutto giustificata la diffidenza con cui questa forma narrativa è guardata in molti ambienti scientifici. Già il porre il problema richiede però una spiegazione. Perché ci si interroga sulle possibili relazioni tra scienza e fantascienza, in modo più preciso, poniamo, che non sulle relazioni tra scienza e letteratura fantastica, o ancora più in generale fra scienza e arte? La risposta sta già nel nome, ibrido e pretenzioso, di questa moderna versione della narrativa popolare fantastica: fantascienza, appunto, o science fiction, come più precisamente dicono gli anglofoni ponendoci da sempre difficili problemi di traduzione.

…nella fantascienza è potenziato al massimo un procedimento di “costruzione progressiva” da parte del lettore dell’universo della narrazione, che non viene presupposto a priori come in altri generi letterari (il romanzo realistico, o novel, per esempio). L’atteggiamento diffidente a cui prima si accennava trova allora una prima spiegazione in un equivoco: sembra che si richieda alla fantascienza un elemento di coerenza, o di plausibilità scientifica che, in fondo, non le compete.

  • [Carlo Pagetti, Introduzione a La penultima verità di P. K. Dick] “Siamo di fronte, naturalmente, a un linguaggio puramente illusorio, com’è sempre quello della fantascienza.” “Questo è un discorso che riguarda anche anche la narrazione fantascientifica, ancora più inverosimile, a modo suo, del fantastico puro, proprio perché vorrebbe darci un’immagine riconoscibile non solo del futuro, ma anche del presente.”
  • [P. K. Dick, La mia definizione di fantascienza (1981) in Mutazioni] “La fantasy tratta di ciò che il senso comune ritiene impossibile; la fantascienza tratta invece di ciò che il senso comune ritiene possibile, date particolari condizioni. Questa affermazione, in essenza, è arbitraria, dato che il possibile e l’impossibile [non possono essere] conosciuti oggettivamente e sono, piuttosto, una credenza del lettore.”

La fisica moderna, con Galileo e Newton, si è costituita contro il senso comune dell’epoca, non al seguito di esso: e se oggi l’astronomia copernicana o la legge di gravitazione non ci appaiono “intuitivamente” assurde, questo misura le trasformazioni storiche della nozione di “senso comune”, più che l’avvicinamento alla “verità” delle teorie scientifiche (e chi, del resto, si sentirebbe di misurare sull’intuizione il valore della teoria relativistica o di quella quantistica?). Se abbandoniamo, perciò, il pregiudizio realistico secondo cui la scienza serve per “descrivere” nel modo più preciso possibile la realtà, e consideriamo come meno impegnativa e più ricca l’ipotesi che ogni teoria scientifica “costruisca” da sé la propria realtà, conformemente ai dati disponibili e alle ipotesi che devono essere confrontate con essi, ci accorgeremo forse che questo atteggiamento non è poi cosi diverso da quello di chi, come lo scrittore di fantascienza, costruisce romanzo per romanzo o racconto per racconto l’universo entro cui far svolgere le proprie storie e far agire i suoi personaggi. Cambiano, naturalmente, le regole del gioco, la natura dei controlli, i parametri in base ai quali si giudica “riuscita” l’estrapolazione o il “riorientamento” generale che viene proposto. Ma è simile l’atteggiamento di fondo. “La scienza – ha scritto Giorgio Celli – procede per salti quantici, intuizioni da ’provare in seguito’, usa il metodo ‘per assurdo’, ha il coraggio di anticipare e inferire, adotta pericolanti ipotesi euristiche, costruisce schemi e modelli immaginari”. “La scienza è una fantascienza che ha deciso di ridurre, operativamente, le sue ipotesi al minimo: è una fantascienza ‘economica’ o, se preferite, ‘povera’”. Ecco perché mi piace pensare, sempre con Celli, alla fantascienza come a una “ipotesi romanzata” del metodo scientifico, a una “metafora epistemologica”. La fantascienza, che uccide per sua natura la metafora a livello del significante, che “ri-letteralizza” il linguaggio, e fa vivere ogni similitudine, ogni iperbole, di vita propria, mantiene forse il meccanismo metaforico nella sua struttura di genere, nelle convenzioni che la rendono riconoscibile, facendosi leggere come una grande volgarizzazione della scienza, del suo procedere, delle condizioni che la hanno resa possibile.

[1982 – La fantascienza come genere letterario]  

“lettori di fantascienza che passano alla letteratura ‘alta’ e lettori ‘normali’ che passano a leggere fantascienza. Questi passaggi sono forse interessanti per comprendere il meccanismo di fruizione ( e quindi di costruzione) delle opere di fantascienza. Un caso concreto ci è raccontato, in un suo saggio, da Samuel Delany, scrittore americano di fantascienza e sulla fantascienza:                       – “Non molto tempo fa ho parlato con uno storico che un tempo leggeva moltissima letteratura, ma che si era accorto di aver cominciato a leggere sempre più fantascienza, al punto che, negli ultimi due anni, a parte le riviste e i saggi, non aveva letto assolutamente altro. «Ero un po’ spaventato all’idea di fare marcia indietro e rimettermi a leggere un romanzo ‘serio’», mi disse, «non avevo idea di quello che mi sarebbe successo. Ma alla fine, trepidante, mi decisi a tirare giù dallo scaffale Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, che è sempre stato uno dei miei preferiti. Ebbene, mi è piaciuto davvero, l’ho apprezzato più di ogni altra volta. Però mi sono accorto che qualcosa era cambiato. Prima leggevo un romanzo e pensavo a come era il mondo all’epoca in cui il romanzo era stato scritto. Questa volta, leggendo il libro, mi chiedevo che tipo di mondo avrebbe dovuto esistere perche la storia di Jane Austen potesse aver luogo: ed è un mondo, ti assicuro, completamente diverso da come era realmente in quell’epoca. Tu sai che la conosco bene, quell’epoca, perché è quella che studio abitualmente». Per quanto mi riguarda – continua Delany – io direi che questa persona ha cominciato a leggere i romanzi di Jane Austen come se fossero fantascienza.” –                                                                                       Se ci pensiamo un momento, questo aneddoto ci porta a porci il problema della definizione della fantascienza in un modo forse più complicato, ma certo più fruttuoso. Siamo cioè portati a chiederci non solo: che cosa rende un testo di fantascienza diverso da un testo non di fantascienza, che cosa rende diverso l’insieme dei testi di fantascienza da altri insiemi di testi, non di fantascienza? Ma anche: che cosa c’è, nella fantascienza, che rende possibile leggere testi non fantascientifici secondo un “modo” fantascientifico? 

Un problema di definizione è sempre un problema di demarcazione, soprattutto rispetto a campi (o generi, in questo caso) contigui. Il problema della definizione della fantascienza è perciò, in prima approssimazione, il problema di come distinguerla rispetto ai generi che si possono chiamare, grosso modo, realistici e fantastici, perché di entrambi la fantascienza sembra conservare e trattenere qualcosa (dei primi, la minuziosità descrittiva di ambienti e situazioni, la preoccupazione per la plausibilità o la verosimiglianza; dei secondi, l’irruzione di elementi non coerenti con il mondo dell’esperienza quotidiana, strani o meravigliosi), senza identificarsi con nessuno dei due.

Stanislav Lem, per il quale nella fantascienza “tutto ciò che viene mostrato deve essere interpretabile, in linea di principio, empiricamente e razionalmente. Nella fantascienza non ci possono essere prodigi inesplicabili, trascendenze, demoni o diavoli: e l’insieme dei fatti deve essere verosimile.”

l’enorme influenza del “modo” fantascientifico, che dalle pagine dei libri dilaga su quelle delle riviste a fumetti, sugli schermi cinematografici e televisivi, nutre il nostro immaginario non più solo con i contenuti o gli intrecci dei racconti, ma anche e soprattutto con l’estensione della tecnologia a strumento di percezione del mondo e di mediazione con la realtà, all’interno della più grande rivoluzione culturale, materiale, scientifica e tecnica che l’umanità sta probabilmente conoscendo: quella che prepara una integrazione fra uomo e macchina, fra naturale e artificiale, mai vista prima. E non è detto che debba essere per forza un’apocalisse.

[1986Cultura e immaginario scientifico]  

Nei loro studi Mary B. Hesse e Thomas S. Kuhn, soprattutto, hanno mostrato che anche lo scienziato fa uso di metafore, descrive cioè un oggetto facente parte di un certo ordine di discorso con termini appartenenti a un ordine diverso. La metafora dello scienziato non è puramente divulgativa, ma ha un reale potere esplicativo: la metafora ci dice su quell’oggetto più di quanto prima non sapessimo, è in qualche modo il germe di una nuova teoria. E perciò, una volta che abbia superato i test di coerenza teorica o di adeguatezza sperimentale, può essere, come dire?, letteralizzata, presa alla lettera per essere assunta all’interno della sistemazione finale del discorso scientifico. È da rilevare qui un’altra interessante analogia con le osservazioni sulla fantascienza fatte da una studiosa americana, Teresa De Lauretis. Anche De Lauretis parla di una «letteralizzazione della metafora» come procedimento tipico della fantascienza: questa, nel costruire l’universo del testo (che non è, in questo genere letterario, lo stesso universo reale in cui vivono l’autore e il lettore) è costretta a far uso di procedimenti che, metaforici nell’universo reale, non lo sono più nell’universo della narrazione. I problemi di coerenza e di compatibilità interna di questo universo si pongono successivamente a questa opzione di fondo e non sono, è chiaro, risolti una volta per tutte, ma fanno parte dei problemi propri della strategia narrativa. L’analisi di Teresa De Lauretis si . ricollega a quella di un autore e critico di fantascienza, Samuel Delany, che vede la specificità di questo genere letterario nella progressiva costruzione di un mondo fantastico (con una sua fisica, una sua cosmologia, una sua antropologia, una sua storia) da parte del lettore che utilizza 1e tracce e gli indizi disseminati nel testo dell’autore. Una vera e propria collaborazione semiotica fra autore e lettore, peraltro già ampiamente esaminata da Eco, un «protocollo di scrittura» che genera un «protocollo di lettura» che finisce poi per rendersi autonomo dai testi che lo hanno prodotto e può essere applicato ad altri testi.

[1987L’uomo artificiale > cap. 4. Compagno replicante]

…dal saggio di Dick, Man, Android and Machine: “Ogni cosa è egualmente viva, libera e senziente, perché ogni cosa non è viva, o viva a metà o morta, ma piuttosto attraversata dalla vita” Antonio scrive: “- Ogni cosa è attraversata dalla vita – È curioso leggere una frase di questo genere nelle pagine di un uomo che più di ogni altro forse, negli ultimi trent’anni, aveva contribuito a tracciare  una mappa degli inferni tecnologici nei quali si aggira l’uomo di questo fine millennio.”  

[1987Prevedere con la fantasia]

La fantascienza è quello strano tipo di romanzi in cui l’autore si diverte a raccontarci quello che succederà nel futuro. Così la pensa di solito la gente: più i non lettori che i lettori di fantascienza, bisogna dire.

La fantascienza è una forma di narrativa, o, per usare il termine anglosassone che ha un significato più vasto e preciso, di fiction. La fiction, parli del passato, del presente o del futuro, è un atto di immaginazione, di finzione, di invenzione, e di per sé non ha alcun vincolo di verosimiglianza, o di aderenza alla realtà, neppure a ciò che si suppone sarà la realtà fra un certo numero – di anni o di decenni. Eppure non ci si può sottrarre alla sensazione che, in qualche modo, alla fantascienza sia intrinsecamente connesso un qualche atteggiamento di aspettativa nei confronti del futuro. Perché altrimenti uno scrittore dovrebbe scrivere proprio storie di questo genere, ambientate per il novanta per cento nel futuro, e non invece romanzi storici, o gialli, o comunque ambientati nel presente? E perché un lettore dovrebbe leggerle? Lo scrittore di fantascienza non può non essere, in qualche modo, interessato in maniera speciale al futuro. Lo sarà per insofferenza verso il presente, addirittura per una profonda forma di disadattamento; per pura fantasticheria; o anche (perché no?) per capire meglio il presente.  

[1988 –  Dromoscopia, P. Virilio]

…il pianeta è ormai tutto cartografato. Non si viaggia più per scoprire qualcosa che non si conosce, ma per confermare de visu (e rimanerne spesso disillusi) quanto si è letto sulle guide o visto in tv. Bene: non ci rimane forse la grande riserva dell’immaginazione? Se non siamo più capaci di fare davvero dei viaggi nella realtà, non possiamo ancora viaggiare con la fantasia? Chi ponesse la domanda in questi termini, dimostrerebbe di soffrire di quella diffusa distorsione ottica, che consiste nel considerare l’immaginario come un ersatz, un surrogato del reale, tanto rigorosamente separato quanto facilmente intercambiabile.

…e l’immaginario non se ne sta lì a “coprire i buchi della realtà”, ma interagisce con essa, la legge, in qualche modo perfino la determina.

(Ballard) il suo interesse andava ai nuovi miti dell’era tecnologica e ai “depositi fossili” – così li definiva – che si depositavano nella psiche umana. Così riprese il tema del viaggio fantascientifico e lo rivoltò come un guanto: i viaggi dei suoi personaggi sono itinerari in cui le tappe della peregrinazione fisica corrispondono alle tappe di un’esplorazione interna.

Dalla peregrinazione nel labirinto della città all’immersione nell’interno del corpo umano, il passo non è così lungo come sembra.

Se le “interiora” sono l’ambiente del solo viaggio oggi possibile, non si possono escludere quelle delle macchine che mediano ormai la nostra percezione del reale. Anche il viaggio all’interno del computer è ormai stato scritto. Sono i primi passi in quella che sarà forse la vera interiorità, anche in senso psichico, degli anni a venire. Neuromante (1984) e Count zero (1986) di William Gibson presentano l’invenzione forse più potente e visivamente più forte della fantascienza degli ultimi anni, il “ciberspazio”.

[1990Il sistema dei media nell’universo della fantascienza]

la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inevitabile fra parola e immagine. Ne è te-stimonianza la produzione più recente dei narratori americani cosiddetti «cyberpunk», in particolare di William Gibson; questi nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale.

[1992 – Risposte alla tavola rotonda sulla fantascienza] https://www.academia.edu/318211/Risposte_a_un_questionario_sulla_fantascienza 

Tutti i generi letterari o artistici (senza distinzione fra letteratura o arte «colta» e «popolare», da quando questa distinzione ha acquistato un senso, cioè con l’età moderna e la formazione di un «pubblico» nel senso in cui lo intendiamo oggi), tutti i generi, dico, nascono per separazione da una situazione precedente di indistinzione, e muoiono per un fenomeno analogo ma rovesciato, che possiamo chiamare di «contaminazione» o di «fusione».

…dobbiamo abbandonare la velleità definitoria e onnicomprensiva e concentrarci sul sistema di attese dei lettori, che è ciò che storicamente determina i generi e le loro caratteristiche (e che, insieme ai concreti modi di produzione culturale di una data epoca, costituisce ciò che chiamiamo «immaginario»: un termine che dovremmo forse abbandonare da quando se ne sono impadroniti ciarlatani e burocrati televisivi.

…se proprio volessimo una formula, potremmo dire: «la fantascienza è quella forma di narrativa popolare che elabora l’esigenza di fiction collegata al nuovo ruolo della scienza nel sistema concettuale occidentale e della tecnologia nella vita quotidiana.»

Fantastico e immaginario tecnologico non sono due cose sostanzialmente diverse che vanno collegate: la fantascienza nasce proprio perché la scienza e la tecnica hanno un certo ruolo, e questo ruolo è percepito dall’uomo comune (o da certi strati dell’uomo comune) come parte della sua vita e come generatore di bisogni immaginari. Non è certo la fantascienza che «familiarizza» i lettori con le scoperte scientifiche e tecnologiche: elettricità, telegrafo, telefono, radio, televisione, si impongono per conto loro come mezzi di comunicazione e tecnologie di uso sempre più quotidiano. La fantascienza elabora un bisogno fantastico, finzionale, legato a queste innovazioni: e questo è già «immaginario tecnologico».

Se la fantascienza è un genere storico, quindi soggetto a vita e morte come tutti gli enti storici, non c’è da meravigliarsi non solo che la fantascienza di oggi sia diversa dalla fantascienza di ieri (cosa che anche il meno dotato dei lettori capisce), ma anche che essa possa estinguersi.

La fantascienza (si capirà che intendo il genere come determinato nel mercato editoriale della letteratura popolare di questo secolo) nasce in una fase culminante della modernità, una fase che (parafrasando e correggendo Virilio) si potrebbe chiamare un’«era della velocità».

La bomba apre quella che potremo definire l’«era dell’accelerazione»: progressivamente, negli anni Sessanta e Settanta, il parametro su cui giudicare il mutamento sociale non è più la sua «velocità» (per esempio la densità di innovazioni tecnologiche – o la variazione di prodotto interno lordo – per unità di tempo, o qualsiasi altro indicatore economico e sociale), ma la sua «accelerazione» (cioè l’aumento di quella velocità per unità di tempo). L’effetto sociale che ne deriva è quello che Alvin Toffler ha definito, nel titolo di uno dei suoi libri più famosi, «lo shock del futuro». Certo, il ritmo dell’innovazione tecnica (più che della scienza vera e propria) subisce una tale accelerazione che la classica funzione «predittiva» di certa fantascienza (non di tutta) cade completamente.

…è la stessa nozione di «futuro», una nozione chiave della modernità, sulla quale si basava in larghissima misura la fantascienza, a dissolversi. Il sentimento del tempo di questa tarda modernità, di questa rivoluzione postindustriale promossa dall’espansione delle tecnologie e non governata da nessuno, è un espandersi indefinito e fisso del presente a cui tutto viene commisurato. Oggi né passato né futuro sembrano più essere presenti al sentire collettivo: tutto è già stato non solo pensato e agito, ma sentito (traggo queste considerazioni dall’ultima interessante opera di Mario Perniola, che si chiama appunto Del sentire). Il futuro ci è crollato addosso, si sta già realizzando ora: non solo, ma questo non è «il futuro», sono già i cento, mille, possibili futuri ognuno dei quali trova, nella complessità e nella segmentazione sempre maggiore della società postindustriale, un suo spazio di realizzazione e di coesistenza accanto ad altri.

…fantascienza tradizionale: un genere, cioè, che può essere ancora grato a certi strati di lettori, ma che sopravvive ormai a se stesso.

Nella letteratura di genere, più ancora che nella letteratura «alta», è fuorviante cercare il «capolavoro». La fantascienza è una costellazione di immagini che passano di opera in opera, e così facendo si amplificano, si arricchiscono, si trasformano. Questo non vuol dire che non si possano formulare giudizi di valore anche nella letteratura di genere.

Mi dispiace per chi non lo ha capito, ma Gibson e Sterling sono stati (insieme a Shepard e a Kim Stanley Robinson) gli autori «di fantascienza» più significativi degli anni Ottanta perché hanno visto i processi sociali e le ristrutturazioni dell’immaginario con grande acutezza. E possono quindi essere messi sullo stesso piano di Thomas Harris, di Ellroy, di Skipp e Spector, di David Schow, degli altri grandi rinnovatori di generi degli anni Ottanta. Ma anche (fuori dai generi) di Don De Lillo e di Brett Easton Ellis. Quello che bisognerebbe chiedersi è forse proprio come è cambiato, in relazione a queste trasformazioni, il pubblico della fantascienza. Un lettore tipo forse non esiste oggi (in Europa, negli USA e in Giappone), come non esisteva negli anni Venti. Seri studi sociologici in questo senso ce ne sono pochi, e nessuno in Italia.

[1999L’insostenibile naturalità della tecnica]

La fantascienza (non si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX secolo. Ci ha fornito un riassunto e un’epitome della storia precedente del mondo vista dal punto di osservazione di un presente in preda a una continua mutazione, ci ha fornito innumerevoli squarci di alterità, ci ha abituati a vedere il futuro non come uno sviluppo lineare del passato e del presente ma come una costellazione di possibilità; nel volgere di pochi decenni ha cantato l’ultimo inno, il definitivo, alle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, e ha irriso quel mito come nessun altro ha saputo fare, corrodendolo dall’interno e nutrendoci dell’immaginario della catastrofe e del dramma insito nella potenza della tecnologia. La domanda è: la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo? La risposta è più probabilmente no che sì. La fantascienza cadrà vittima (forse è già caduta vittima) di quel processo che ha saputo così bene illustrare, e nei casi migliori interpretare, quello della caduta del cielo dell’immaginario sulla terra del reale. La fantascienza, infatti, non può vivere se non c’è quel minimo scarto fra progettualità e realizzazione, se non c’è una distanza sia pur piccola fra l’esistente e il germe della novità (il novum di cui parla Darko Suvin) che fra le pieghe dell’esistente matura. La fantascienza ha bisogno di questo scarto, di questa distanza, per instaurare il suo sguardo sul mondo, che poi può essere profetico o ironico, catastrofico o consolatorio, ma è lo sguardo che vede allargarsi le due sfere, quella del reale e quella dell’immaginario, e in quell’allargamento vede confondersi i loro confini, vede crescere la zona di intersezione fra i due, fino a che questa zona, in cui reale e immaginario si fondono, ricopre tutto il nostro mondo, diventa l’unica zona a cui ha accesso la nostra esperienza. La fantascienza può vedere e descrivere il processo di conversione del virtuale nel reale solo finché questo processo è ai suoi inizi, solo finché esistono luoghi da cui vedere quella zona di confusione e distinguerla per differenza dalle altre in cui la distinzione fra reale e immaginario è ancora relativamente salda. Ma quando i confini del reale sono tanto allargati da coincidere con quelli del possibile, quando il “possibile” non è più definibile in opposizione a un “impossibile” – se non in termini puramente logici – qual è il punto di osservazione che adotteremo? 

Musil. “Il possibile non comprende soltanto i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio. Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione.” Chi poteva trattare la realtà come un compito e un’invenzione, come si suggeriva all’inizio di L’uomo senza qualità, era ancora e pur sempre un soggetto, era l’uomo “per il quale una cosa reale non vale di più che una immaginaria,” e che proprio per questo “dà finalmente senso e determinazione alle nuove possibilità, e le suscita.” Le cose, lo vediamo, non stanno affatto andando così. Le nuove possibilità che giornalmente vengono suscitate sulle reti telematiche, grazie alle interazioni di milioni di individui (uomini, donne, transgender, knowboat, cyborg), appaiono più come un processo continuo e impersonale che come un insieme di progetti riconoscibili dotati di “senso e determinazione”. Non è in discussione la ricchezza di questo processo, né la sua ineludibile realtà. La risposta non può quindi essere quella di resuscitare categorie nate e sviluppate in una situazione completamente diversa dall’attuale, come appunto quelle di “soggetto”, “progetto”, e simili, del tutto inefficaci se maneggiate senza profondi ribaltamenti. La proposta di Donna Haraway di lavorare su “saperi situati”, di mettere in luce la “radicale specificità storica e quindi la contestabilità di ogni livello dell’edificio scientifico e tecnologico” si è rivelata, come lei stessa ammette, più ambigua e più difficile di quanto il femminismo storico non avesse pensato. Paradossalmente, infatti, la moltiplicazione dei punti di vista e la distruzione del centro, processi che la tarda modernità ha esaltato e diffuso, non portano da soli a un arricchimento del senso e a una dialettica, per dirla con Musil, fra “consapevoli utopismi”. La moltiplicazione delle legittimazioni è infatti puramente formale, avviene in un contesto in cui le pratiche discorsive “situate” acquistano diritto di esistere (e anche una relativa visibilità) solo a prezzo di perdere ogni carattere operativo, ogni efficacia come proposte universali. I discorsi delle donne, dai gay, delle lesbiche, dei neri, possono naturalmente circolare, anzi in certo modo “devono” circolare, ma diventano elementi del rumore di fondo diffuso che costituisce l’acqua in cui naviga la società dell’informazione. Questo mi sembra, per tornare all’interrogativo posto all’inizio, uno degli effetti più generali e gravidi di conseguenze del mutamento delle tecnologie. A questo punto la continuità che pure esiste fra la selce e il computer non ci aiuta a capire. La sfera della tecnica è oggi diventata una “seconda natura” non più nel senso di un “ambiente” umanizzato, e quindi per definizione controllabile: il mondo delle tecnologie sta acquistando, come e più di quello della natura originaria, un carattere “oggettivo” nel senso di “incontrollabile”.

[2009Introduzione a Universi paralleli]

…l’autobiografia I miracoli della vita, pubblicata in Inghilterra nel 2008. Anche in questo libro Ballard conferma l’opinione già espressa negli anni sessanta, cioè che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura: Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato.

Questo, io credo, fu il significato dello slogan radicale che Un’ambigua utopia lanciò sin dal suo primo numero nel dicembre 1977: “Distruggere la fantascienza„: utilizzare l’immaginario fantascientifico per nutrire l’immaginario sociale, organizzare la migrazione delle figure, delle situazioni, delle alterità, dalle pagine dei romanzi e dagli schermi dei cinema alla vita reale. “Praticare l’utopia.„ Questo fu il “programma„ con il quale Un’ambigua utopia si presentò negli anni in cui sviluppò la propria esperienza, e questa fu la proposta che io cercai di portare, per tutti gli anni 1980 e i primi 1990, nella mia attività giornalistica come è documentata in queste pagine.

Una letteratura pensata e declinata al futuro non ha più nulla da dire, e quindi impallidisce e si stempera, nella società del “tempo reale„. Si potrebbe pensare, allora, che la fantascienza di quegli anni rivesta al massimo un valore documentario, e che rileggerla oggi abbia un interesse limitato, “archeologico„ in senso tradizionale. Essa sarebbe stata “contemporanea„ nel momento in cui venne scritta, e sarebbe oggi irrimediabilmente datata. Certo, è evidente che essa testimonia di una congiuntura culturale, politica e sociale che non è quella di oggi. Ma noi sappiamo che la nozione di “contemporaneità„ non è così semplice e linearmente definita come il termine farebbe supporre, che la relazione di persone, azioni, eventi, col proprio tempo è più complessa e problematica: “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. (…) La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo.” [G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?] Il fatto che in campo letterario la fantascienza sia tramontata, non significa affatto che essa non sia più “attuale”: tanto è vero che i suoi temi, le sue strategie narrative, le sue modalità discorsive stanno migrando già in questi anni nelle produzioni della nuova industria culturale, nei nuovi generi che si preparano e già vivono nella narrativa, nel cinema, nei videogiochi, dal fantasy al noir.

Se la fantascienza di Dick, Ballard e Burroughs ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo„, fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla. Il valore della fantascienza, a ben vedere (soprattutto e con maggiore consapevolezza il valore della fantascienza radicale), stava in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – e a volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà„, metteva in dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente, reintroduceva a vele spiegate (talvolta con irritante ingenuità, è vero, ma spesso invece con irresistibile acutezza e sagacia) il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale. Realizzava insomma, all’interno dell’industria culturale, quella rivalutazione del “senso della possibilità”. (>Musil)

L’esperienza di UAU

[2009 – La fs è morta, viva la fs!]

Per quelli di noi che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso leggevano la letteratura di consumo cercandovi qualcosa di più sottile di una trama ben congegnata, di qualche emozionante battaglia a base di cannoni a neutroni o di poteri psi, di qualche ingegnosa descrizione di tecnologie o paesaggi alieni, era la fantascienza in quanto tale a incarnare la letteratura del “novum cognitivo”, e non solo le sue punte più alte o in qualche modo eccentriche. Prima che Suvin arrivasse a illuminarci (e non lo dico affatto con disprezzo né paradossale ironia) con le sue teorie cesellate fra strutturalismo e post-strutturalismo, eravamo già convinti che la fantascienza fosse una narrativa dotata di un particolare potenziale cognitivo: in altri termini, che leggendo la fantascienza si potesse capire meglio la società, e anche che si potesse agire più efficacemente dentro la società.

La rivendicazione delle potenzialità cognitive della fantascienza, nell’elaborazione di Un’ambigua utopia, si legava però a una rivendicazione a tutta prima paradossale, chiaramente affermata nell’editoriale del primo numero della rivista: quella della “distruzione” della fantascienza. Che cosa intendevamo con quella formula? Niente di più e niente di meno che lo sviluppo delle tendenze implicite nella fantascienza stessa all’interno di una pratica sociale che già si andava sviluppando nelle propaggini del cosiddetto “movimento del 77”, e quindi il tentativo di far vivere le intuizioni e le indicazioni di una certa fantascienza direttamente nelle dinamiche della società.

L’uso della fantascienza che si proponeva era, insomma, quello di un lavoro sull’immaginario sociale molto simile a quello di altre esperienze coeve dell’underground, e di quello che, di lì a meno di un decennio, sarebbe stato del cyberpunk. Come spesso accade, la “distruzione” della fantascienza ci fu (e proprio il cyberpunk ne rappresentò il canto del cigno), ma in un senso un po’ diverso da quello che noi propugnavamo nei primi anni Ottanta. Credo che uno dei meriti della lettura radicale della fantascienza proposta negli anni Settanta e Ottanta  sia stato proprio quello di cogliere lo snodo di questo genere letterario, che in quegli anni stava vivendo una profonda trasformazione. Alla sua nascita come fenomeno dell’industria culturale nel Novecento, la fantascienza non partiva, come l’utopia, da una idea originaria e ideale di natura, ma dalla natura come era stata trasformata nella fase espansiva del capitalismo. L’immaginario della fantascienza dagli anni Dieci ai Sessanta del Novecento era collegato al sogno di un’espansione illimitata della produzione, costruendo una saga dell’energia che si autoriproduceva, un inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità. Dagli anni Settanta in poi, la fantascienza accompagnò la trasformazione dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario: le tematiche dell’equilibrio ecologico del pianeta scosso e minacciato, la contaminazione delle tecnologie coi corpi. Era evidente che la fantascienza non poteva sopravvivere, né nella sua forma “ottimista” né in quella di “testimonianza” della crisi, all’avvento della nuova fase del capitalismo iniziata negli anni Ottanta. I generi della letteratura popolare sono, più di altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi sociali. La fantascienza è morta, quindi, nel momento in cui la società non riusciva più a “progettare il proprio futuro”: ma i suoi temi, le sue strategie narrative, le sue modalità discorsive stanno migrando già in questi anni nelle nuove produzioni della nuova industria culturale, nei nuovi generi che si preparano e già vivono nella narrativa, nel cinema, nei videogiochi, dalla fantasy al noir.


La nuova esperienza di UAU di questo ventennio di inizio secolo insieme all’uso congiunto della sf che fanno Isabelle Stengers e Donna Haraway testimoniano il difficile tentativo di riprendere in termini nuovi la “distruzione della fantascienza” cioè la cancellazione di quella finta distanza tra immaginario e reale che vogliono farci credere ancora operante per impedirci di poter usare, anche a nostro vantaggio, il possibile che la realtà offre a dispetto del probabile prospettato come unica via realmente percorribile. 

Allora, forse, possiamo dire che la fantascienza non è finita, ma è appena iniziata.